Ci sono volute le parole di una delle voci considerate più autorevoli in campo medico, il Professor Franco Locatelli, membro del Comitato Tecnico Scientifico e Presidente del Consiglio Superiore di Sanità, per smentire o quantomeno riformulare un pensiero che si andava diffondendo nell’opinione pubblica e che vedeva i cittadini migranti come “portatori di covid 19”. O meglio, l’assurdità di una narrazione tossica era divisa in fasi: 1) il virus non c’è più quindi via le mascherine segno di oppressione 2) il problema dell’Italia sono gli sbarchi incontrollati (leggi Salvini e paccottiglia varia rimasta inalterata) 3) fermare gli immigrati perché portano il virus. Il Prof Locatelli, il 17 agosto, ha – per taluni inutilmente – spiegato che, dati alla mano, la percentuale dei contagiati, fra i migranti, oscilla fra il 3% e il 5% e che buona parte di questi hanno contratto il virus per le condizioni di sovraffollamento che impediscono protezione e distanziamento sociale nei centri di accoglienza. Fra il 25% e il 40% (dati diversi per regione) sono invece gli italiani Doc che sono risultati positivi dopo una vacanza all’estero, da mesi sconsigliata.
Oggi il più grande focolaio in Italia è in un centro di accoglienza, nella Caserma Serena di Treviso. Persone sbarcate già positive? No. Persone presenti in Italia da prima dell’esplodere della pandemia e che nel centro dormivano, di giorno uscivano per lavorare, spesso al nero e che per questo si sono contagiati. Il 12 giugno i positivi erano 2, non sono state prese misure cautelari – tranne 8 giorni di quarantena – da parte dell’ente gestore e dell’Usl né sono stati fatti tamponi fino al 30 luglio quando i positivi sono divenuti 137. Al 12 agosto si è arrivati a 257 positivi, compresi 11 operatori ed è divenuto impossibile uscire dalla caserma. Un contagio che si poteva evitare: il personale della cooperativa che gestisce il centro dichiara che ci sono condizioni di tensione e di insicurezza che impedivano di farlo ma il vero problema è che, con i tagli operati dal governo all’accoglienza (i 35 euro al giorno per persona destinati ai servizi ai migranti sono divenuti 19), molti piccoli centri hanno dovuto chiudere mentre i grandi in cui è impossibile garantire misure di tutela, si riempivano. Oggi sono circa 86 mila le persone in accoglienza, di queste più di 61 mila in centri come la caserma Serena, quindi si deve provvedere ad intervenire in quel sistema, non a sbraitare contro chi sbarca quasi sempre totalmente sano.
Esistono, per essere completi nell’informazione, altri due contesti in cui poter limitare il contagio. 1) un relativo – dal punto di vista degli arrivi – aumento, soprattutto dalla Tunisia, c’è stato negli ultimi mesi, con momenti in cui nessuno sapeva come reagire. Ora a chi arriva viene immediatamente fatto il tampone, una misura che protegge accolti e accoglienti e che è di puro buon senso per la salute pubblica. Ma tali misure diventano inutili se a chi è arrivato si prospetta come unica prospettiva l’espulsione. Inevitabile che fuggano ed altrettanto inevitabile che possano anche contrarre il virus. Invece di mantenere il blocco dei rimpatri, il governo ha deciso che dal 10 agosto questi riprendono regolarmente. Una mossa dettata forse da timori elettorali, sarebbe stato più utile dare ad ognuno, anche a chi da anni è presente senza documenti, permessi almeno temporanei per avere pieno accesso al SSN.
2) Ci sono poi le lavoratrici e i lavoratori stranieri che sono tornati a casa in ferie nei propri paesi di provenienza, dove hanno contratto il virus. Se si eccettua un numero di casi, sempre nell’ordine delle decine, di persone provenienti dal Bangladesh, quelli che risultano tornare oggi positivi al covid e asintomatici sono pochissime unità al giorno. Persone che se individuate, come ogni altro cittadino, dovrebbero restare in quarantena ma che spesso sono in difficoltà per due ragioni: il datore di lavoro impone il rientro al posto pena il licenziamento e quindi il rischio di diventare irregolari; l’impossibilità a vivere in case ampie al punto da garantire le distanze necessarie per evitare il contagio. C’è da aggiungere certamente che in alcuni casi, difficoltà linguistiche, assenza di una informazione completa nella lingua parlata dal cittadino straniero esposto crea ulteriori problematiche. Ma dati i numeri, data la quantità di alloggi disponibili e di risorse messe in campo, un lavoro di questo tipo sarebbe possibile e accessibile, tanto per i cittadini stranieri positivi al virus quanto per gli italiani che si trovano nelle stesse condizioni. Purtroppo sono poche le realtà in cui si cercano soluzioni adeguate alla salute pubblica e di questo tipo inclusivo. Molto meglio far ricadere le responsabilità sugli stranieri. Arrivando anche a conclusioni assurde. Ad esempio, tornando a Treviso e alla caserma Serena, ad un certo punto si è finalmente deciso che le persone ancora negative (cinque) dovevano trovare altra collocazione per evitare di essere contagiate. Si è reperita un’altra palazzina in cui sono stati trasferiti ma è montata la protesta, guidata dal sindaco perché i cittadini “non volevano gli immigrati”. Il sindaco di Treviso ha poi spiegato di non essere stato informato anzitempo dalla Prefettura e che se i cinque sono negativi possono restare nella casa che è stata loro assegnata ma intanto è montato l’allarme. Questo accade mentre il 97% dei contagi è portato da cittadini italiani che, ignorando le disposizioni cautelative imposte, considerando ormai passata la pericolosità sociale della pandemia, hanno ripreso a vivere come se nulla fosse. Se – e speriamo di sbagliare – dovessero riaumentare drasticamente i contagi come sta avvenendo nel resto d’Europa, ancora ce la prenderemo con i migranti?
Stefano Galieni
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