Le donne rifugiate e migranti residenti in Italia rappresentano poco più della metà del fenomeno migratorio. Sul totale della popolazione straniera residente nelle Marche sono circa il 53%, e pure continuano ad essere invisibili rispetto alla loro specificità di genere.

Dai più sono viste come legate a culture arretrate e immodificabili, in particolare sui diritti delle donne, da alcuni da “salvare” dalle loro comunità di origine, vittime per definizione, e  difficilmente ci si sofferma a riflettere sul loro progetto migratorio, nato per  ragioni diverse, molto spesso per un insieme di situazioni, dove magari la ricerca della autonomia economica si intreccia con la ricerca della libertà, oppure con il desiderio di fuggire da situazioni di oppressione,  o di violenza basata sul genere o dalle tante forme di discriminazioni e subalternità a cui le donne sono assoggettate nel mondo (matrimoni forzati, schiavismo sessuale, mutilazioni genitali, impossibilità di accesso all’istruzione, stupro di guerra, ecc.)

[Mostra: Se chiudo gli occhi vedo]

Sono XXXXX, sono afghana, sono fuggita.

A sedici anni mi hanno data in sposa.

Non conosco il mio sposo. Mi vorrà bene?

Come sarà la mia vita? Cosa succederà?

Sono sposata da sette giorni e già ho le lacrime negli occhi.

Ogni notte un incubo

Ogni giorno un incubo

Il mio corpo è pieno di lividi

Il mio collo è stato stretto dalle mani di chi doveva amarmi.

Io sono sola, terribilmente sola.

Ora ho una figlia e l’ abbraccio stretta sul mio cuore.

Lui non mi ama

Lui non ci ama

Il mio dolore deve uscire da questo corpo

Mia figlia non può crescere così.

Ora sono finalmente libera

Ora siamo finalmente libere.”

[Testimonianza raccolta da AMAD]

Certamente il contesto e le vie delle migrazioni pongono i gruppi di donne, nelle varie fasi del processo migratorio, nella condizione di dover affrontare rischi e insicurezze diverse rispetto agli uomini, ma anche rispetto ad altri gruppi di donne. Pagano lo “svantaggio” di essere donna, soprattutto quando non hanno un visto sul loro passaporto ed affrontano un lungo, costoso, faticoso e doloroso viaggio verso la meta, rischiando continuamente la vita, lo stupro e le violenze sessuali  per passare le frontiere e prendere un barcone.

La popolazione femminile straniera è molto diversificata, le migranti sono diversificate fra loro, come qualsiasi altro gruppo di donne, tanto nella composizione, quanto nelle modalità di adattamento e di inserimento in Italia, che discende dal  percorso migratorio,  e riflette il modo di collocarsi tra la propria cultura e quella in trasformazione nel paese ospitante.

Una immigrazione composita ed eterogenea sia per la diversa origine di provenienza che per i differenti livelli di istruzione, ma tutte le donne migranti “pagano” anche quando arrivano essendo soggette alla doppia discriminazione: di origine etnica e di genere, affrontano nel loro quotidiano discriminazioni multiple per il loro essere donne, straniere, o appartenenti a gruppi minoritari, e povere, in una società patriarcale. Ancora oggi, le politiche migratorie sono nei fatti disegnate sul migrante maschio e non tengono nel debito conto le specifiche persecuzioni legate al genere.

Le loro narrazioni riflettono il proprio personale viaggio, molto diverso se fuggite per sottrarsi a violenze, discriminazioni o a guerre o partite al seguito di un uomo o magari per ricongiungersi alla famiglia oppure da sole, per un bisogno economico, con un progetto migratorio autonomo, spinte dalla possibilità di affermarsi e fare carriera.

Storie personali molto diverse se si arriva con un aereo o con un barcone per mano di trafficanti.

“Sono Freshta Hamidy vengo dalla’ Afghanistan, sono fuggita.

Prima che arrivassero i Talebani ero un insegnante. Penso che insegnare sia un lavoro sacro. Insegnando servo il mio Paese e i  bambini del mio Paese.

Insegnavo con amore infinito.

Ogni giorno dicevo alle studentesse: voi siete il futuro di questo Paese.

Il nostro Paese prospererà con le vostre mani, e loro studiavano più felicemente.

Eravamo ignare del destino che ci attendeva.

Il giorno in cui è iniziata la storia nera delle donne e delle ragazze afghane, con l’ arrivo  dei Talebani, non potevo più fare l’insegnante, né le ragazze potevano studiare.

Le donne e le ragazze sono  state private del diritto andare a scuola.

In Afghanistan, ogni giorno le donne perdono la vita per difendere i propri diritti.

Non importa  quante  donne  e ragazze Afghane abbiano protestato per avere  il diritto allo studio  e al lavoro, le proteste non hanno avuto risultato, ma le donne continuano anche se il mondo le ignora. Io lotto e spero nella  libertà delle donne Afghane.”

[Testimonianza raccolta da AMAD]

I pochi studi specifici, ci dicono però che le donne migranti, nei luoghi di arrivo, sono più capaci di innovare, di trovare risorse, soluzioni, e di fare rete rispetto agli uomini migranti.

Mantengono i legami con la propria terra d’origine, ma sanno tessere nuovi legami nel paese di approdo, sono donne con competenze lavorative e culturali capaci di attuare strategie di adattamento alle diverse situazioni che di volta in volta devono affrontare. Le migranti mandano a casa più soldi degli uomini, contribuendo con le loro rimesse non solo a mantenere i familiari rimasti a casa ma a sostenere l’economia del paese d’origine.

La nostra struttura sociale ed economica e la nostra politica dell’immigrazione condiziona fortemente i ruoli che ricoprono nella nostra società e di conseguenza anche i tempi e i modi del processo di integrazione. Un esempio ne sono le barriere all’accesso del mercato del lavoro, per chi altamente qualificata non si vede riconosciute capacità e competenze, Anche quando i titoli di studio sono riconosciuti, come per le italiane che hanno mediamente un grado di istruzione più alto, così per le migranti, che però vi si scontrano in modo ancora più, sono meno incluse nel mondo del lavoro.

Espeth Guild, (professoressa al Centro di Diritto dell’Immigrazione dell’Università Radboud di Nimega – Paesi Bassi e Senior Research Fellow nella Sezione Giustizia e Affari Interni del CEPS) relatrice in un seminario organizzato da AIDOS, parlando di integrazione dice:

 «Quando le migranti si trasferiscono nello stato di accoglienza, entrano in contatto con un nuovo sistema di aspettative della società nei loro confronti. Questo processo può essere contemporaneamente sia liberatorio che frenante. Non necessariamente queste donne sono delle vittime. L’Europa è piena di migranti visibili e invisibili – sia donne che uomini – la cui esperienza di migrazione ha portato un arricchimento, sia per loro che per la società che li/le ha accolti. La dinamica è continua: le migranti e i migranti cambiano la società in cui vivono e ne vengono cambiati».

In ogni caso per chi si occupa di integrazione non si può prescindere dal tenere in considerazione i livelli di discriminazione razziale e culturale incontrati dalle donne migranti e i problemi che incontrano all’interno delle loro stesse comunità. Altrettanto è necessario riflettere su quale sia lo stato dei diritti reali della minoranze e su come raggiungere l’uguaglianza in presenza di diversità culturali.

Oltre ai pregiudizi razziali e alla xenofobia, agli stereotipi culturali, molte affrontano la segregazione professionale e sociale e si trovano in una posizione svantaggiata anche nel sistema formale dei diritti. Segregate in casa propria o di altre e quindi in un segmento del mercato del lavoro complesso e particolare, sfuggono alla vista e non esistono nella percezione dell’opinione pubblica.

Le donne arrivate negli anni settanta, da sole lasciando le proprie famiglie, lo hanno fatto per inserirsi nel settore dei servizi ed erano mosse dal desiderio di emanciparsi economicamente.

Le parrocchie e le reti femminili interne ai gruppi di appartenenza contribuirono al loro inserimento nel lavoro domestico, presso famiglie del ceto medio-alto.

In genere hanno una casa dove stare a tempo pieno, i pasti e lo stipendio ma le condizioni e gli orari di lavoro non permettono di interagire con il contesto sociale in cui si trovano, pesando negativamente sull’apprendimento della lingua, sulla conoscenza e l’accesso ai servizi, in altre parole limitano il processo di integrazione ed inoltre non lasciano spazio  per i propri sentimenti e i propri affetti.

Le immigrate diventano le nuove detentrici della cura e del lavoro domestico e, anche se hanno titoli di studio elevati e sono in Italia da tanti anni, rimangono forzatamente nei livelli più bassi del mondo del lavoro e della società. Per noi, lavoratrici retribuite italiane, la gestione della riproduzione sociale, invece di essere ripartita tra i generi, si risolve spostandola sulle spalle delle immigrate, chiedendo loro di rinunciare ai propri spazi privati e affettivi in cambio di una autonomia economica. Nel contempo il numero di lavoratrici migranti impegnate nei servizi di cura alle persone e di assistenza domestica, ha messo in evidenza diversi limiti di molte società occidentali e di quella italiana in modo particolare: limiti strutturali dei sistemi di welfare, limitata disponibilità di lavoro domestico, invecchiamento della popolazione autoctona, basso tasso di fecondità.

Ancora oggi le donne migranti costituiscono la maggioranza delle lavoratrici domestiche in tutto il mondo. In Italia, di fronte alle lacune del sistema di welfare, anche le famiglie dei ceti sociali più bassi, si sono trovate costrette a fare ricorso all’aiuto domestico delle lavoratrici migranti.  Sono spessissimo in condizioni di lavoro illegale che le  espone a gravi forme di sfruttamento e di abuso. Quando si trovano ad avere debiti elevati con i loro reclutatori possono diventare vittime di schiavitù. Continuano ad essere fortemente dipendenti dal datore di lavoro e possono avere poca o nessuna conoscenza dei loro diritti o dei modi in cui possono cercare sostegno.

La presenza di donne immigrate nelle fabbriche e nelle imprese di servizi comincia a vedersi solo negli anni ottanta, e iniziano anche a lavorare ad ore nel lavoro domestico, iniziano a cercare casa propria, magari insieme ad altre per dividere le spese, e a spostarsi nel territorio, si aprire una strada per una maggiore autonomia e l’integrazione.

I flussi migratori femminili aumentano di molto negli anni novanta sia per i lavori domestici che per i ricongiungimenti familiari con i mariti, arrivati prima e stabilizzatisi, ma si manifesta anche l’ incremento della presenza di donne vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale.

Prostituzione e tratta, che riguardano comunque una parte molto limitata, danno spazio a stereotipi e pregiudizi che ricadono su tutte.

In quanto ai ricongiungimenti familiari se da un lato può essere considerato un indicatore di integrazione e stabilità, dall’altro, per le donne si concretizza in diritti derivati.

Lo status del maschio capofamiglia e produttore di reddito determina lo status della donna che da lui dipende anche in termini giuridici per il permesso di soggiorno. Si sancisce così una forma di discriminazione indiretta, e si produce un ostacolo alla possibilità per le donne di decidere della propria vita e trovare una propria collocazione nella società di accoglienza: in assenza di sicurezza per quanto riguarda il permesso di soggiorno, le donne possono essere costrette a subire rapporti di coppia insoddisfacenti, o anche violenti. In caso di divorzio o di morte del marito la donna rischia l’espulsione dal paese di accoglienza.

Dai dati, le donne che migrano per motivi familiari hanno, dei tassi di occupazione molto più bassi rispetto alle donne che arrivano per motivi di studio o lavoro.

Dei nostri tempi, il dato più significati riguarda le donne richiedenti asilo e le donne rifugiate, ed ancora una volta non esistono con una propria soggettività, ancora una volta c’è “il” rifugiato, “il “ richiedente asilo, tanto che anche le strutture di accoglienza per le donne sono poche. E’ vero che le donne profughe sono meno dei maschi, ma le loro storie in quanto profughe donne si colorano di violenze subite che faticano a raccontare e della paura di ritorsioni sulla famiglia rimasta nel Paese di origine. Devono affrontare ed elaborare il vissuto di violenze subite ma sono sole ed ai margini. Ancora sole quando i motivi della fuga sono ascrivibili a persecuzioni per motivi di genere come i delitti di onore, la violenza legata alla dote, il matrimonio precoce e/o forzato, la mutilazione genitale femminile, il ripudio di riti di vedovanza, la trasgressione di norma di comportamento o di abbigliamento, la violazione di diritti sessuali e riproduttivi come l’aborto coatto, la gravidanza o la sterilizzazione forzata, le politiche di pianificazione familiare, le prove di verginità, la violenza domestica e la tratta ai fini di sfruttamento sessuale.

Il fatto di non conformarsi agli standard morali ed etici imposti dalla comunità di origine o il fatto di essere mogli, figlie o madri di uomini considerati colpevoli dalle autorità governative o da agenti non statali, può risultare sufficiente per diventare vittime e quindi scappano da violenze che subiscono nel loro paese, poi subiscono violenze nelle traversate, nei centri di detenzione come in Libia, sulle imbarcazioni che le portano in Italia.

Per le donne in fuga, la violenza lasciata alla partenza diventa violenza durante il viaggio e ancora violenza con un arrivo non accogliente.

Uno sguardo specifico voglio rivolgerlo alle donne e ragazze afghane fuggite dal loro Paese che noi occidentali abbiamo regalato ai talebani dopo avergli fatto promesse di libertà. A quelle donne che sono riuscite ad arrivare, e alle tante che invece hanno perso la vita nella fuga ed alle tante che ci chiedono di venire e che noi lasciamo nelle mani di un regime teocratico, oscurantista e violento mai visto. Sono studentesse, dottoresse, insegnanti, giudici, giornaliste, sportive, musiciste, artiste, attiviste per i diritti umani e tanto altro. Sono mussulmane, portano l’hijab o non lo portano per loro scelta.   Nel nostro Paese fanno rete, si sono organizzate per darsi sostegno e aiutarsi nel processo di inclusione ed allo stesso tempo per fare da sponda e dare voce alle donne rimaste in Afghanistan. Ma nella opinione pubblica, la donna musulmana riassumere insieme, nel proprio corpo, comportamenti, abbigliamento, stile di vita, ruolo in famiglia e fuori considerati in modo stereotipato come l’altro in assoluto, il nemico e pertanto le donne mussulmane sono soggette a forme di discriminazione e razzismo specifiche,  aggressioni verbali e psicologiche.   

Le donne, frequentando molto più degli uomini luoghi pubblici come i mercati, i negozi e le scuole,  si trovano a interagire maggiormente con gli altri e quindi a doversi più spesso confrontare con l’islamofobia.

Dall’altro verso, le donne musulmane che non indossano l’hijab possono diventare vittime di aggressioni e insulti, ovviamente da parte di musulmani tradizionalisti che si oppongono fortemente a stili di vita considerati troppo occidentali.

“Sono Sima, sono afghana ero una studentessa e sono fuggita.

Ora sono una rifugiata , sono sopravvissuta ad un paese dilaniato dalla guerra che mi ha tolto tutto. Ad ogni ricordo del mio passato il mio cuore fa male, ma oggi ho deciso di raccontare un po’ delle cose che ho passato. Io ero nel buio, dove il futuro sembrava nero e senza speranza.

Avevo perso tutto, la mia famiglia, la mia casa e il mio  paese .

La mia anima era appesantita dalla tristezza,  sentivo che la vita  non aveva più significato.

Non sapevo cosa fare ed ero molto stanca ma ho continuato a cercare una soluzione.

Il peso dei miei problemi mi divorava.

Un giorno ho visto una pagina web di una associazione italiana che ha l’obiettivo di aiutare le donne, questa è stata una scintilla di speranza per me.

Sono riuscita ad entrare in contatto con loro e ho raccontato di me, della mia storia e delle miei lotte con i problemi. Incredibilmente mi hanno risposto subito e hanno offerto il loro aiuto e sostegno. Per me era strano, non riuscivo a credere che esistono nel mondo ancora persone che tendono una mano a uno sconosciuto bisognoso.

Era un sensazione strana e pensavo : dopo tutte le cose che ho passato posso fidarmi?

L’ esperienza che avevo dei talebani mi ha reso difficile fidarmi e ero proprio chiusa su me stessa.

Ma questa pagina web e le risposte mi hanno fatto vedere che esiste  ancora nel mondo Gentilezza e compassione.

 Il viaggio che mi ha portato in Italia non è stata facile, ero piena di paura , timorosa e diffidente.

Poi pensavo: ma cosa ho da perdere?

Io sono arrivata in Italia ai primi di gennaio del 2022 , con la speranza di iniziare una vita nuova e normale, ma i ricordi del mio passato sono rimasti come un ombra.

L’ aiuto che ho ricevuto mi ha dato il coraggio e la forza per  continuare e lottare per il mio futuro.

La mia storia è solo una delle tante storie delle donne e ragazze afghane ma io sono in salvo, tantissime altre no. La racconto perché mi fa ricordare che anche nei momenti più bui si può ancora trovare la speranza.”

[Testimonianza raccolta da AMAD]

In conclusione le migranti tutte si imbattono in muri enormi  costruiti dalle norme di legge su immigrazione, cittadinanza e asilo che impediscono loro di trovare la propria giusta collocazione nella società.

Quando va bene sono considerate solo vittime ma non si vedono i percorsi di autonomia, autodeterminazione e affermazione  ed in genere la società intorno a loro le considera solo un problema se non se ne stanno tranquille dove sono state relegate. 

Per chiudere senza chiudere, uso le parole di una giornalista, Yasmin Alibhai Brown, ugandese di origine asiatica e mussulmana, che si domanda e ci domanda: «È possibile promuovere l’eguaglianza fra uomini e donne nelle comunità di minoranza, senza garantire – prima – l’eguaglianza di queste comunità rispetto all’insieme della società? Fare l’una cosa senza l’altra, è possibile, è desiderabile, è praticabile? Per riuscire a fare davvero dei passi avanti reali e duraturi è necessario comprendere il complesso rapporto fra eguaglianza razziale/culturale e uguaglianza fra i sessi, e anche le trasformazioni che avvengono nei diversi gruppi culturali, nonché nella comunità di accoglienza».

Donatella Linguiti

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